Caterina Marinelli

Passeggiando con l’artista

Felice chi è diverso

essendo egli diverso.

Ma guai a chi è diverso

essendo egli comune.

 

             Sandro Penna

Camminiamo Caterina e io sul sentiero che conduce al castello di Segonzano. Caterina mi racconta di un sogno recente che ha trasferito su tela. Si trova di notte da sola davanti al castello con un paziente sulla barella e si sente angosciata perché non sa darsi una spiegazione di come lei, piccola piccola, si trovi lì, da sola al buio con quella persona sulla barella senza sapere cosa fare. Il dipinto che rappresenta la scena è pieno di meravigliato smarrimento, ma anche di infinita poesia, proprio come sa coglierla Caterina, sempre.

C’è nel quadro sì lo spaesamento di trovarsi lì, ma c’è anche tutta la magia e la bellezza di essere davanti a un rudere medioevale illuminato dal bagliore di uno sterminato cielo stellato. E’ come se la tragedia fosse tutt’uno con l’armonia di quel resto architettonico e l’ immensità dell’universo.

E’ la prima volta che parliamo in modo tanto confidenziale e lo facciamo davanti a una macchina da presa per realizzare un film proprio sulla sua vita. [1]

Caterina mi racconta di quanto sia importante per lei essere soccorritore della Stella Bianca. Mi parla della sua più recente passione: la barella. Mi spiega le differenze che esistono fra le varie tipologie e come funziona un’asse spinale o una barella a cucchiaio. Ogni tanto, scherzando e ridendo, canta “barella quanto sei bella!” e per farmi un complimento mi chiama barellona o barellina.

Poi camminiamo un po’ in silenzio, la salita è ripida e risparmiamo il fiato. Più io che lei, abituata com’è a spostarsi sempre a piedi su questi pendii.

Caterina riprende il discorso con un tono di voce più velato e mi racconta di quando da piccola si trovava in un istituto per bambini abbandonati, a Genova, la città dove è nata. I ricordi sono dolorosi, ciononostante non tralascia di magnificare la bellezza delle architetture di quel posto. Recentemente ha ritrovato le stesse vetrate a volta nell’ex manicomio di Pergine dove ha esposto le sue opere nelle cucine dismesse in occasione del festival Pergine Spettacolo Aperto[2].

Quella grande vetrata, quell’arco e quegli ampi spazi, che si possono vedere oltre il vetro, la emozionano. Perfino l’odore le suscita nostalgia, sia pure di un luogo che non ha amato.

Intanto arriviamo dentro al castello mentre Ferno, il suo bulldog che ha preso il nome da una marca di barelle, ci precede.

Caterina guarda la valle oltre la feritoia, il suo sguardo divaga, si posa su punti sempre diversi, preferisce non fermarsi direttamente nei miei occhi mentre mi racconta di quando le è successo l’incidente dove ha perso la vita sua madre adottiva. Mi parla di dolore, di lamenti. Mi parla anche di vomito. Mi racconta che quando era piccola e con gli altri bambini dell’istituto andavano in gita sul monte Zatta, molti suoi compagni sul pullman vomitavano, cosa che la terrorizzava e che solo in seguito all’incidente, avendo vomitato moltissimo, ha scoperto non essere proprio una tragedia, ma anzi una provvidenziale possibilità per stare meglio. Mi racconta anche dell’elicottero d’emergenza che era arrivato a prelevare lei e la mamma e mi dice che, da allora, è in grado di sentire un elicottero in volo molto prima di chiunque altro si trovi con lei. La decisione di diventare soccorritore volontario matura in seguito a questo tragico evento. La sua determinazione è assoluta e, con l’aiuto del suo medico di base, dott. Maurizio Virdia, riesce a superare gli esami e a diventare soccorritore.

Le passioni le arrivano forti e per un periodo sono assolute. Dell’argomento che la interessa pian piano conosce tutto, diventa una esperta. Poi, quando subentrano altre passioni, restano comunque le testimonianze: su di un ripiano in salotto, infatti, c’è una intera collezione di modellini di autoambulanze e di elicotteri. Uno dei tanti capitoli di una sorta di autobiografia visiva che si scrive ogni giorno e si dilata nella casa.

Le scene girate al castello chiudono la sequenza delle riprese esterne ed ora con il regista e il cameraman ritorniamo sui nostri passi per raggiungere la casa di Caterina. Lungo il tragitto, prima di arrivare al portone del suo cortile, un portoncino con un’ insegna su cui è disegnato un bulldog ci segnala il suo museo, dove si trovano diversi animali che sono passati ad altra vita. Varcato il portoncino esterno superiamo un’altra soglia ed eccoci di fronte all’ esposizione dei suoi animali imbalsamati. Ci sono diversi cani che le sono appartenuti e che ha molto amato. Una volta morti anche loro sono stati imbalsamati. Così sono rimasti con lei, che si oppone alla consunzione del corpo e alla sua scomparsa. Caterina me li presenta uno a uno, chiamandoli per nome. Di uno mi dice essere morto per incidente, di altri mi racconta altri aneddoti, per ognuno di loro ha parole di affetto.

Sembra che la sua vita e quella dei suoi cani si sia cristallizzata e che il tempo sia un mero accidente più simile a una illusione che alla realtà.

Sugli scaffali ci sono tanti scheletri. Di gatto, di cane, di gallina, di pipistrello e di altri animali. Tutto è ricomposto con rigore e mi sorprendo nel constatare quanto siano belli. Caterina me ne mostra la meccanica. Ha messo delle molle nelle mandibole del bull terrier e così sono in grado di vedere come si comporta il suo morso. Le pose degli animali sono molto plastiche, dinamiche. Mi parla del suo diploma di tassidermista e delle leggi che regolano l’imbalsamazione. Si entusiasma descrivendo la bellezza dell’anatomia, che lei conosce alla perfezione. Il suo museo non ha nulla della tetraggine che contraddistingue molti luoghi che raccolgono animali imbalsamati, anzi direi che si tratta soprattutto di un luogo dove l’affetto mantiene la forma immutata. Prima di uscire mi mostra ridendo un cane in creta che guida la locomotiva della Trento-Malè. Una delle grandi e temporanee passioni di Caterina è stata anche questa tratta ferroviaria, quando prendeva il treno per andare alle lezioni di canto.

Si era talmente incuriosita e appassionata ai meccanismi di queste motrici che aveva fatto amicizia con il macchinista, il quale le aveva perfino concesso di stare nella cabina di guida. Ascoltando i rumori dei vari strumenti, delle rotaie e di tutto ciò che “suonava” su quella macchina di ferro, Caterina ha inventato la musica trenica. Vere e proprie sonate da lei composte ed eseguite, ispirate alla voce della Trento-Malè[3].

Caterina chiude con cura la porta del suo museo e poi il portoncino esterno e ci dirigiamo verso la sua casa. Già nel campanello troviamo un’altra immagine di cane e una volta varcata la soglia le immagini canine ci vengono incontro a frotte. Ci sono sculture sui piani delle finestre, a terra, sulle pietre pavimentali, nella feritoia del muro di cinta. Sono di razze diverse: un bracco svizzero, un bull terrier, un bulldog, due meticci.

Nel varco della porta che introduce nell’ingresso, un giro di tavole a mosaico mostra una serie di cani rappresentati nelle diverse posture.

Appena entrati ci troviamo di fronte una cassapanca di legno intagliato, con lo schienale realizzato con due figure di cani. Pure sui cuscini sono dipinti altri esemplari.

Sulle mensole, sui gradini, a ridosso o sopra i mobili: cani ovunque, di diversa foggia, di diverso tipo di creta, di diverse misure.

Le sculture rappresentano maternità, scene di lotta, cani che giocano, che ringhiano, che defecano, urinano, vomitano. Cani accucciati, cani che si rotolano, che si girano a scacciare insetti. Cani paralizzati, cani disabili. Anche cani in pose scherzose e inverosimili. Caterina infatti non disdegna di mettere a disposizione la sua grande abilità anche per realizzazioni ironiche. Ha un gusto molto divertito per le cose kitsch.

Dall’ingresso ci spostiamo a sinistra dove si trova il suo laboratorio. Qui su un bellissimo e antico tavolo da falegname, appartenuto al padre e prima di lui a qualche artigiano della vallata, oltre a lavorare il legno, lei è usa a imbalsamare le sue bestie. Spesso sono animali morti accidentalmente che qualche conoscente le porta e che lei tiene in un grande freezer fino a che non decide di procedere. Alle pareti diverse tavole di corpi spellati e diverse tavole anatomiche, oltre a foto scattate da lei al suo cane o ad altri soggetti di suo interesse. Sopra il tavolo una bellisima lampada scorrevole da lei stessa realizzata dopo averla vista nei reparti di radiologia. Tutto attorno, in un rigoroso ordine, tantissima strumentazione. Caterina ama profondamente gli oggetti d’uso. Gli strumenti di lavoro costituiscono per lei una delle sue massime spese.

Subito dopo il laboratorio si apre uno spazio lungo, con volta a botta, che è il suo atelier. In questo spazio Caterina è intervenuta su tutto: dal pastellone rosso cupo del pavimento, all’erezione dei piani murari, alla realizzazione di mobili. Anche le piastrelle dietro il rubinetto del lavandino sono state realizzate da lei.

Sul cavalletto una tela in lavorazione. Non si capisce ancora se sarà un uomo che si ibriderà in cane o un cane che sta per trasformarsi in uomo. Di solito lavora a olio, ma non disdegna nessuna tecnica. E’ sempre desiderosa di imparare e curiosa di tutto. Sperimenta con grande interesse e sempre con risultati eccellenti. Nell’atelier realizza anche le sue sculture che porta poi a cuocere in un paese vicino. Si muove da uno spazio all’altro di continuo, mostra, spiega, si assenta e la si sente parlare da sola in distanza per poi vederla ricomparire: mai ferma, mai quieta.

Di sopra, in cucina, ci attende l’amatissima zia Anna Rosa a Prato, sorella della mamma di Caterina.

Saliamo tutti le scale. Procediamo fra quadri durissimi, con scene di incidenti, spargimenti di sangue, aggressioni di cani. Fauci minacciose escono ringhiando dai corpi dei feriti, dei cani assalgono i soccorritori. Solo raramente qualche immagine serena, qualche ritratto familiare, qualche luogo pacificato. Accanto ai quadri diverse riproduzioni fotografiche di cani. Le sculture di cani invece sono sui gradini e sui mobili. Così pure nella sala che affaccia sulla valle. Su tutto c’è l’intervento delle sue mani. Dal tavolino a forma di asse spinale a tutti i cuscini dove anche qui ha disegnato mastini, bulldog, bull terrier, e anche qui le statue sono disposte ovunque. I quadri alle pareti raccontano di pazienti, di ospedali e incidenti.

Caterina e Giulio, il regista, si portano sul balcone per guardare il panorama e lì fumano un sigaro, altra sua passione che di solito lei ama condividere con il suo miglior amico, Rodolfo Carpigo.

In cucina finalmente incontriamo la zia Annarosa che ci ha preparato il pranzo. Anche lei si sta muovendo fra immagini di cani, dipinti e oggetti realizzati da Caterina. Appoggia una forchetta sul portaposate a forma di barella pettine e l’acqua della pasta l’ha appena salata affondando la mano nella bocca spalancata di un bulldog di creta che funge da porta sale. Ci sono tantissime cose, ma tutto è molto ordinato. Anche gli arredi della cucina sono realizzati da Caterina: sugli sportelli della credenza ci sono delle tarsie di legno dipinto che raffigurano animali. Mentre diverse silhouette di animali neri su fondo giallo decorano le due ante del mobile del secchiaio. Sulla porta del bagno sono dipinti da ambo i lati due altissimi e magrissimi cani. Perfino lo scopino del water viene infilato in un contenitore a forma di cane. Qui un mastino, là un bull terrier, in un altro bagno un’altra razza ancora. Dipinti di cani anche su un legno copri-bidè, sul coperchio del water. Profili di cane in legno dipinto come porta carta igienica.

Parliamo di tutti questi oggetti lavandoci le mani uno dietro l’altro prima di metterci a tavola.

Ora siamo tutti seduti al nostro posto e mentre pranziamo la zia Annarosa ci racconta di quando Caterina è stata adottata. Sua sorella Bianca Maria abitava a Genova, dove il marito lavorava all’Ansaldo come ingegnere elettrotecnico e lei prestava attività di volontariato presso l’istituto dove viveva Caterina. Ci racconta che si deve all’accortezza e alla lungimiranza di una nuova direttrice arrivata in istituto la futura sorte di Caterina. La nuova direttrice, infatti, accortasi delle grandi potenzialità della bambina, insistette perché Bianca e suo marito la adottassero, proprio perché di rara sensibilità, dotata e intelligente, che avrebbe rischiato di perdersi se fosse rimasta lì.

I coniugi Marinelli non si fecero pregare, raccolsero l’invito e adottarono la bimba, che divenne subito per loro una amatissima figlia. La zia ci racconta dei periodi difficili dell’inizio, anche perché Caterina aveva comportamenti anomali, bizzarri, assumeva atteggiamenti da cane, non accettava nessuna delle regole comportamentali richieste in società. Aspetti questi che preoccupavano molto i neogenitori. Genitori per altro fantastici, intelligenti e modernissimi nelle loro strategie educative e nella disinteressata relazione d’aiuto.

Caterina si dimostra fin da subito poco scolarizzabile, ma ha grandissime doti artistiche e la nuova famiglia non spinge verso mete che lei non desidera, ma ne rispetta gli interessi e ne asseconda le inclinazioni, favorendola in ogni sua aspirazione artistica. A soli undici anni espone i suoi magnifici lavori a Genova e viene definita dal giornale locale “un piccolo Ligabue”. Già allora i suoi soggetti preferiti erano i cani e il mondo medico. Due interessi rimasti sempre costanti nel tempo e che sono i due interessi principali ancora oggi. Con il tempo si avvicina alla scultura, frequentando, seppure in modo discontinuo, le lezioni del maestro Mauro De Carli che dirigeva a Trento “La finestra”[4]. I suoi le fanno frequentare anche qualche maestro di pittura e di musica, ma appena appresi i rudimenti il percorso di Caterina vira sempre verso sperimentazioni autonome, originali e non mai rigorosamente ortodosse. Finché parliamo Caterina ascolta tutto, annuisce, ride, si assenta, poi ritorna. Quando ti si avvicina, appoggia per scherzo le mani sul tuo braccio, nel modo in cui un cane vi appoggerebbe le zampe. Fiuta, canta, esprime un giudizio, sempre lucida, mai scontata. Vigile quanto basta e assente quanto le serve. Assecondante e libera.

Caterina ci invita a vedere anche il reparto notte e ci incamminiamo tutti su per le scale. Anche qui tanti dipinti alle pareti, sculture di cani sui gradini, sui mobili. Diverse di queste statue sono dipinte.

Nelle stanze, in tutto il piano notte, ovunque sculture in legno, in carta, in creta. Adagiata a terra, fra i cani, la scultura di un uomo incidentato, a misura reale, con fratture scomposte e un’espressione di terrore nel volto livido e la bocca aperta, urlante.

Nella stanza da letto di Caterina, invece, come d’ incanto, tutto si rarefà. Ci sono meno cose.

Quasi nulla realizzato da lei. Qui ci sono più che altro pelouche. E’ una stanza quasi da fanciullina, spaziosa e ben arredata, a tratti romantica, anche se un grosso osso di femore di vitello tiene ben aperta la porta.

Muoversi in questi spazi, parlare con la zia che la segue nel totale rispetto della sua autonomia, pur senza mai privarla della sua presenza, discreta e un po’ in disparte, si capisce cosa vuol dire essere un artista e cosa vuol dire saper rispettare l’indole di un artista.

Caterina dice sempre che è stata fortunatissima ad avere due genitori come i suoi genitori adottivi. Pur non potendo sapere come sarebbe stata la sua vita se fosse vissuta con la famiglia d’origine, è convinta che non sarebbe stata altrettanto feconda. Stima i suoi genitori adottivi, sa di essere quello che è anche per merito loro e tuttavia ha l’onestà di riconoscere che, paradossalmente, quando è rimasta sola ha potuto finalmente agire in modo completo la sua libertà. Ha iniziato a impossessarsi degli spazi, a liberarsi degli oggetti che non amava, ad adattarsi le stanze alle sue esigenze. A muoversi, insomma, senza dover spiegare, giustificare, dimostrare. E sa anche che tutta questa autonomia la ha acquisita grazie proprio ai suoi genitori e al modo con cui, fino al fatidico momento del distacco, le sono stati vicini.

Ci muoviamo in questa casa-studio-museo con la consapevolezza di essere di fronte al risultato di un lavoro artistico costante, tenace, consapevole e condiviso. Nulla è scontato qui. Tutto è ricerca e amore per la ricerca. Niente viene fatto per scopi commerciali e niente viene accettato come committenza. Caterina fa perché vuole fare e fa quello che vuole fare.

Adesso ci racconta di quanto sia bello per lei partire prima dell’alba, ancora con il buio, per recarsi agli appuntamenti con la Stella Bianca e ci spiega quanto sia bello camminare sulla neve, nella notte. Ci fa notare come la gente non conosca i colori e come la notte non sia assolutamente liquidabile come qualcosa di nero. La notte è blu e viola e di un azzurro che schiarisce in certi punti all’orizzonte. C’è del giallo diffuso dalla luce degli astri e tutto è pieno di infinite sfumature. Poi ci parla dei suoi interventi di soccorso. Dell’adrenalina che gli sprigionano i codici rossi, quando le ferite sono gravi e la vita è in pericolo. Lei dice che in quei momenti si sente come un dio, perché lei sa la bellezza di ogni organo, conosce l’anatomia e la meccanica del corpo e sa che questa bellezza, questo armonico assemblaggio che chiamiamo essere vivente, lei lo può aiutare perché conosce e ama quelle parti, non ne ha orrore e non prova il ribrezzo che normalmente prova chi ignora e vede nel fluire del sangue solo una minaccia.

Caterina racconta, si ferma, sorride, annusa l’aria, a tratti ride di gusto, si china a guardare qualcosa, canta. Caterina è un ciclone di gravida libertà.

La sua porta e la sua anima sono sempre aperte agli altri. Finché parla penso che qualsiasi cosa io le abbia proposto, lei lo ha sempre accettato. Abbiamo fatto mostre con le sue opere. Le ho chiesto di tenere dei laboratori per i malati neurologici del Centro Franca Martini, dove ha insegnato a persone con limitata motricità a lavorare la creta. Nei laboratori si è affiancata spontaneamente a ogni forma espressiva. Si è unita ai gruppi riabilitativi che lavorano il legno, a quelli che realizzano tavole musive. Ha dato la sua disponibilità a lavorare con i bambini della scuola materna e della scuola elementare. Si è accompagnata in gite e viaggi a persone in difficoltà sia per il gusto di viaggiare, ma anche per dare una mano. Si è prestata, senza inibizioni, alla realizzazione del film su di lei. Ha perfino accettato di fare una performance artistica conducendo 200 psichiatri a realizzare ognuno un cane di creta. Ovunque porta competenza e simpatia e da tutto e da tutti impara. E’ uno spirito assolutamente libero, una mente totalmente prensile, in grado di far sua ogni tecnica che le permetta di lavorare materiali e di costruire oggetti.

Ora mette un disco di Monteverdi. Ama la musica classica, che suona talvolta sul suo organo, ma si diverte anche con musiche meno nobili, delle quali apprezza i ritmi martellanti e ipnotici. Non credo esista un linguaggio artistico che non riesca ad apprezzare. Ultimamente si è cimentata con la scultura del legno, entusiasmandosi per le sgorbie e tutti gli arnesi per piallare e intagliare. Da un anno a questa parte costruisce sculture di cani iperrealisti semplicemente piegando i giornali. E con questa tecnica ha fatto costruire pure un dinosauro gigante a dei bambini della scuola elementare di Pergine assieme al giovane maestro artista Filippo Bampi.

Finché ragioniamo e parliamo di tutto ciò, discutiamo anche della sua mostra, questa che oggi le dedica il Comune di Segonzano. Insisto con lei che non deve cedere le sculture che le dico, perché per una mostra è importante avere a disposizione le opere migliori. Lei ovviamente mi rassicura, sottolinea anzi che quel cane e quell’altro che le ho raccomandato, proprio non li vuole cedere per nessun motivo al mondo neanche lei. Io so però che la costringo a promettere ciò che, il più delle volte, non saprà mantenere. Se avrà bisogno di un arnese costoso, vendere magari proprio quella statua che le ho raccomandato di tenere le sarà utilissimo per procurarsi il denaro necessario. Caterina è irriducibile. Per raggiungere i suoi scopi ti può anche mentire, consapevole che la bugia avrà vita corta e che lei allora ti dirà ridendo che è obbligata a raccontarti qualche bugia, le serve per poter fare quello che vuole, senza inutili intralci, e ancora ridendo sottolinea che comunque sa che la bugia, dalle persone che la amano, le sarà perdonata. Intanto, finché parliamo, si è accorta che al bull terrier accovacciato nella feritoia del muro di cinta gli si sono spezzate le zampe anteriori. Guarda il tetto appena rifatto e si ricorda che non ha rimosso la scultura da lì durante i lavori. Deve essergli caduto sopra qualche mattone. Una zampa ora si trova sull’erba un metro e mezzo più sotto e non sa come recuperarla. Allora decide che si può far prima e meglio ricostruendola ex novo e che magari può apportare una variante interessante introducendo un po’ di creta nera, così da ottenere un effetto nuovo, non ancora investigato. La seguo nel suo laboratorio e la guardo manipolare veloce e precisa la creta. Fa sempre impressione vedere la rapidità dei movimenti con la quale riesce a plasmare con precisione un’ anatomia. Ha un senso profondo dell’armonia della forma, una conoscenza scientifica assoluta, una intelligenza della mano rara.

Da un po’ di tempo si racconta al maschile. Predilige il rapporto con i maschi e le piacciono di più le forme corporee maschili. Tuttavia sa vedere l’armonia anche delle curve femminili, sebbene lei le trovi meno interessanti dal punto di vista artistico. Mi fa notare la curvatura della zampa che ha appena realizzato e intanto mi parla di un viaggio programmato che ha fatto in autoambulanza con un paziente che doveva trasportare a Padova. Va a prendere il suo sketchbook (viaggia sempre con un taccuino e una matita) e mi mostra gli schizzi fatti durante il percorso. Anche nel disegno è bravissima. Documenta tutto. Molti sono i ritratti di persone incontrate durante il suo lavoro di soccorritore. Diversi sono anche i cani disegnati. A volte scene di fantasia, ibridazioni, salvataggi. Quello che non documenta con la matita lo documenta con una piccola macchina fotografica digitale. Anche qui il suo sguardo è laterale, mai scontato. Il suo punto di vista è sempre qualcosa di altro. Se potesse raffinare la tecnica, per quanto riguarda i soggetti e le inquadrature sarebbe anche una geniale fotografa.

Sta calando la sera, la troupe ed io dobbiamo tornare in città. Guardo Caterina. E’ contenta. La conosco da tanto e abbiamo fatto tante cose assieme. Eppure ogni volta che la raggiungo nella sua casa atelier sempre mi meraviglio di questo suo essere artista in tutto. Non lesino complimenti, perché li merita davvero: “Caterina sei proprio una grande artista”. Lei mi batte una mano sulla spalla e sorridendo impacciata minimizza: “Ma dai Daniela, esageri sempre!”

Daniela Rosi

[1] Il film “Caterina”, per la regia di Gulio Bazzanella, prodotto da FORMAT, Centro audiovisivi della Provincia Autonoma di Trento. Riprese di Dennis Pisetta.

[2] www.perginefestival.it – Edizione 2009. Edizione 2010.

[3] Le sonate di musica trenica sono state da lei stessa eseguite in occasione dei seguenti concerti di organo: nel 1994 nella chiesa di San Nicola di Egna (Bz); nel 1995 nella chiesa parrocchiale di Gardolo (Tn); nel 1996 nella chiesa parrocchiale San Giovanni di Quarto (Ge). E’ curioso notare i titoli dei movimenti, in modo particolare quelli del IV volume, che sono coerenti con gli interessi costanti di Caterina: “ETR007”, “ETR008”, Agghiacciante, Apocalisse, Un grido d’aiuto, All’attimo della tragedia.

[4] Lo scultore Mauro De Carli fonda a Trento nel 1977 una libera scuola di pittura, scultura e incisione, “La Finestra”. Un’ esperienza artistica eccezionale rimasta storica nella memoria della città.

cani_caterina_marinelli3
cani_caterina_marinelli4
cani_caterina_marinelli5
cani_caterina_marinelli6
cani_caterina_marinelli7