Guo Peng《FUTURO PASSATO》–Luo Fei《IN CAMMINO》

FUTURO PASSATO
Artist:Guo Peng
CURATOR :Monica Dematté
2019/05/11 – 2019/08/12
Mo Art Space

Futuro Passato
Nuove svolte e stelle brillanti
ora decorano il cielo sconfinato,
sono i pittogrammi di cinquemila anni,
sono gli occhi degli uomini del futuro che fissi guardano.
(Bei Dao)

Non so spiegarmi perché dopo aver visto il progetto per una delle ultime opere di Guo Peng (郭鹏)improvvisamente, una mattina, mi è venuto in mente questo stralcio dalla poesia di Bei Dao ‘Risposta’ (回答), che non rileggevo da anni. Deve essermi apparso mentre mi figuravo l’effetto creato da decine, centinaia di occhi piccoli e grandi che luccicano, incollati su uno sfondo nero, messi lì a sostituire le stelle in una galassia multicolore e variegata. Mi riferisco al lavoro intitolato ‘Conosciuto e sconosciuto’ (《已知与未知》2019), sul quale l’artista non ha voluto dirmi nulla forse per lasciarmi una totale libertà di lettura. Non avendo ancora visto l’opera realizzata, non posso che fare delle supposizioni sull’effetto che creerà, sulle sensazioni che offrirà ai visitatori. Guardo le iridi, ambrate o azzurre, riflettenti, variegate, regolari e irregolari. Tutte apparentemente diverse, ma tutte inquietanti, inespressive, artificiali. Non so neppure se si tratti di occhi umani o animali, o se questa distinzione abbia ancora senso. Oppure, più probabilmente, appartengono a creature diverse da quelle conosciute fino ad ora. Forse a dei robot, forse a creature di altre galassie… Immaginare l’effetto finale dell’opera mi ispira sensazioni particolari: poesia e mistero. Inquietudine e curiosità. Infinitamente grande, infinitamente piccolo. Passato e futuro. Chissà se entità antichissime e familiari come le stelle, che ci tengono compagnia quasi ogni notte, ospitano vite simili alle nostre, e chissà se qualcuno là si interroga su di noi. Chissà se qualcuno o qualcosa ci scruta, chissà se ha bisogno di studiarci o se sa già tutto. O se la nostra esistenza è inosservata e irrilevante, entità minuscola e secondaria. La scienza ci dice che le stelle sono enormi, ma paiono dei puntini perché sono lontanissime. Le iridi degli occhi sono piccole per noi, enormi rispetto a un microorganismo, infinitesimali rispetto ai corpi celesti. Conosciamo abbastanza bene gli occhi delle persone che ci stanno vicino, soprattutto quelle che amiamo: gli occhi sono una delle parti più espressive del corpo umano, e noi li guardiamo soprattutto per quello. Gli oculisti li osservano invece da un altro punto di vista, li studiano per motivi diversi. Ognuno ha il suo modo di guardare, di attribuire o togliere significato, di investire emozioni o di mantenere una distanza asettica. La nostra è veramente conoscenza? Oppure è basata su pregiudizi e informazioni parziali? Esiste una ‘verità’? Esiste una ‘realtà’? Quanto è importante che esista? E’ meglio sapere con precisione la composizione del cosmo, il funzionamento delle galassie, o conservare l’infinita poesia di un mistero che ha cullato gli uomini per migliaia d’anni? L’approccio scientifico e tecnologico di oggi è il più corretto per tutti? Quello che ci può portare più lontano? Riuscirà a risolvere i misteri fondamentali della vita? A me l’opera pone tutte queste domande, e altre ancora.
E poi c’è l’aspetto estetico che non è mai secondario nei lavori di Guo Peng: la sua ordinata semplicità, la sua capacità di conquistare spazi grandi e vuoti con interventi piccoli che si moltiplicano (quasi) all’infinito. L’aspetto di reiterazione dello stesso motivo che si ripete in maniera fluida e variabile e si espande simile a uno sciame di api in volo è ricorrente nella poetica di Guo Peng ormai da parecchi anni. Come nelle grotte buddhiste le minuscole immagini del Buddha coprivano tutti gli spazi non occupati dalle sculture grandi, quelle dei ‘personaggi principali’, così nel suo Uomini passati, Buddha futuri (过来人,未来佛, 2013)e nel più recente Tutte le creature viventi (Yunyun芸芸,da Yunyunzhongsheng 芸芸众生, 2018) lo spazio si popola di tanti piccoli profili di Buddha ritagliati. Mentre nell’opera del 2013 è solo la testa a essere tolta, così che ogni uomo possa immaginare la propria al suo posto e realizzare la sua potenzialità di diventare Buddha, in Yunyun le divinità sono presenti in assenza. Curiosamente, le estremità inferiori di ogni piccolo rettangolo bianco all’interno del quale è stata ritagliato il profilo del Buddha si sollevano leggermente dal muro e diventano simili ad ali, rendendo l’effetto ancora più etereo. Bianco su bianco, vuoto su vuoto, silenzio evocativo, sospensione: ecco cosa oppone Guo Peng all’invadente e colorato mondo là fuori della materia e dell’immagine, quella che sostituendosi all’immaginazione, la uccide.
Un concetto ribadito nell’opera ‘Originariamente vuoto, originariamente pieno’ (本来空,本来满, 2016), in cui centinaia di fogli di carta fotografica bianca sono appesi sul muro un po’ sovrapposti al centro, e poi vanno via via rarefacendosi e conquistando lo spazio circostante, anch’esso bianco e silente. L’entità più grande che li contiene è simile a una nuvola vibrante di messaggi vuoti che non ci è dato di leggere con gli occhi ma di cui possiamo percepire i leggeri fruscii suscitati nella nostra mente.
Per una come me, che si è appassionata alla cultura cinese antica perché riconosceva l’enorme importanza del vuoto fondante da cui tutto ha origine, queste opere di Guo Peng sono un invito a cui non posso rinunciare. La possibilità che esse concedono a ognuno di ‘fare silenzio’ dentro di sé (come diceva il teorico della fotografia Robert Adams, “il silenzio è spazio”), di lasciare che l’immaginazione, stimolata dalla nostra sensibilità, vada a colmare quegli spazi, io la apprezzo profondamente. E godo della totale libertà che Guo Peng mi ha accordato nell’interpretazione delle sue opere. Solo così la scrittura può diventare a sua volta creazione, non essere mera descrizione o parafrasi del linguaggio visivo.
Guo Peng ci parla con il silenzio, con il vuoto, con la poesia di cose infinitamente piccole e infinitamente grandi. Con un piccolo gesto della testa o della mano ci invita ad addentrarci nei suoi mondi sospesi.
Monica Dematté Vigolo Vattaro, 18 marzo 2019


IN CAMMINO

Artist:Luo Fei
CURATOR:Monica Dematté
2019/05/11 – 2019/08/12

In cammino
Ho camminato insieme a Luo Fei sui sentieri della ‘mia’ montagna, la Vigolana, nell’estate del 2018. E’ finita per essere una gita piuttosto faticosa, con qualche imprevisto come è giusto che sia. Ma bella e significativa. Nella fatica si conoscono le persone prima e meglio. Affrontando una camminata, come la vita, è necessario essere pronti a tutto, aperti a tutto.
Di camminare avevamo parlato spesso in passato, e anche a Kunming c’era stato il tempo per qualche gita. Ma la mia ammirazione profonda per Luo Fei iniziò molto prima, quando lui mi parlò della sua intenzione di recarsi ovunque a piedi per quattro anni. Tutta un’altra cosa! Non si tratta della gita in qualche bel posto, non di immergersi nella natura e nemmeno di fare un’attività salutare, o un record, o una sfida. No. Luo Fei aveva deciso di utilizzare solo il proprio corpo per raggiungere ogni luogo in cui sarebbe dovuto andare, dal lavoro agli appuntamenti con gli amici, insomma tutto. Affrontando la fatica, il brutto tempo, la durezza dell’asfalto (non solo) cittadino, la noia, il dolore, il vuoto, la solitudine. E il dubbio. Quante volte nel suo cammino si sarà chiesto il senso di quello che stava facendo? Quante volte si sarà sentito sfiduciato, avrà trovato inutile quel suo esigere così tanto a se stesso, al suo corpo e alla sua mente? E poi perché? Non potrò mai saperlo, perché non ho sfidato me stessa in quel modo, perché non mi sono mai voluta privare, nel cammino, del piacere che sempre mi porta. Perché non ho mai voluto andare troppo oltre.
Ricordo che Luo Fei mi parlò di questa parte della sua vita come di una performance. E, dal momento che per motivi di salute non era riuscito a portarla avanti per i quattro anni che si era prefigurato, si sentiva sconfitto. Io la pensavo e la penso diversamente. A me è sembrata fin dall’inizio una ricerca esistenziale, seria, autentica, profonda. E in quanto tale molto più significativa di un’azione in ambito artistico. Per quanto abbia un’alta considerazione dell’arte, per me è un’espressione che si fonda sulla vita, e che quindi necessita di uno spessore umano per esistere. Una scelta come quella di Luo Fei ti lascia diverso da come eri, ti cambia, ti arricchisce, oltre ovviamente a metterti alla prova veramente.
C’è un altro aspetto di quell’esperienza di Luo Fei che mi ha convinta, fin dall’inizio: il fatto che avesse scelto di non lasciare tracce tangibili del suo agire. Non fotografie, non diari, non video. Nulla. Quando un performer cinese ha davanti a sé l’esempio di un Xie Deqing 谢德庆, che già molti anni fa affrontò prove di grande difficoltà sia fisica sia psicologica, e spesso anche di sicurezza personale (si pensi alla performance Outdoor, 户外messa in atto da ‘barbone’ a New York nel 1981/82), è difficile andare oltre. Oppure un esempio come quello di He Yunchang 何云昌, che si è sottoposto a torture, a fatiche fisiche tremende, che si è fatto togliere una costola e fatto incidere il corpo per un metro con un taglio profondo… oltre questo ci può essere solo il suicidio.
Ricordo quando, dopo il terribile accaduto dell’11 settembre a New York, qualcuno durante una conferenza in Cina mi chiese se la distruzione delle torri gemelle poteva ritenersi performance art. Questa domanda mi mandò su tutte le furie. Ma chi può pensare che un presunto atto artistico possa esimersi dal fare i conti con la differenza fra la vita e la morte? Chi può pensare di utilizzare impunemente le vite altrui per un’espressione personale a scopo… di che cosa? Di auto-affermazione? Di esibizionismo? Fu una domanda che presupponeva una cinica mancanza di discernimento fra il bene e il male, e che ignorava il confine fra la vuotezza di un risultato mediatico, virtuale, e la realtà tangibile della morte e della distruzione.
Quello che Luo Fei aveva intrapreso, secondo me, non era semplicemente una performance. Perché dico semplicemente? Non penso affatto che le performances di Xie Deqing e quelle di He Yunchang siano semplici, anzi, e li ammiro sinceramente. Sono convinta che abbiano ottenuto molto, in termini umani, dalle prove difficili a cui si sono sottoposti e di cui poi ci hanno mostrato la testimonianza accurata, dettagliata, puntuale. Ma Luo Fei ha scelto di non concedersi la ‘gloria’ del dopo. Di non potersi riposare del riposo del guerriero dopo una battaglia combattuta davanti a tutti. Ha scelto di essere l’unico testimone di se stesso, l’unico arbitro, l’unico interlocutore. Così quando, una sera, ha ceduto e si è fatto un giro in motocicletta, nessuno se n’è accorto tranne lui stesso. Che è stato giudice inflessibile nei propri confronti. E’ ancora lui e solo lui che si è sentito un perdente perché non ha raggiunto i quattro anni della sua iniziale intenzione, ma ‘solo’ l’anno e mezzo. A me questa cosa convince molto. Mi sembra finalmente che metta la verità come fattore importante, necessario, del relazionarsi alla vita e all’arte. Perché metto prima la vita? Perché non c’è arte senza vita. Perché non c’è arte senza verità. Tutto il resto è semplice intrattenimento, decorazione, comunicazione mediatica, commercio.
Io so, lo sento, che Luo Fei è cambiato molto durante quell’anno e mezzo in cui ha stretto i denti, in cui, continuando a fare una vita normale, ha dovuto calcolare il tempo che occorreva per raggiungere il luogo dove fare quello che doveva fare. A volta un’ora, a volte due, a volte molte ore, come quando andò a piedi da Kunming a Shilin石林, sull’autostrada. Un autentico incubo. Una sfida eccessiva, da persona giovane e coraggiosa qual’è. Ho saputo qualche giorno fa della figura di Carlo Airoldi, un italiano povero che nel 1896 partì da Milano per andare a piedi fino ad Atene a prender parte alla prima maratona delle prime olimpiadi moderne. Lui però era un atleta, aveva un fine sportivo, e aveva chi lo seguiva (pur da lontano, com’era all’epoca) documentandone le gesta.
Quella di Luo Fei io non la considero una performance, come ho detto. La considero molto di più: un confronto serio con se stesso, fra se stesso e la realtà esterna, una ricerca di senso esistenziale. Non c’è opera d’arte che possa essere più importante. E poi la differenza è che Luo Fei l’ha fatto per sé. Non per ottenere fama, non per dimostrarsi il più duro, ma per una necessità interiore, a cui ha dato spazio. Ha deciso che quella cosa doveva venire prima di tutte le altre. Eppure la ha conciliata con altri aspetti meno ‘eroici’ dell’esistenza. Quindi ha continuato a lavorare, a vedere gli amici, a essere una persona ‘normale’. Non si è dato l’etichetta di ‘artista’, ma quella di uomo. Io penso che, al di là di tutte le presunzioni e le mitologie, siamo – nessuno escluso – persone che non si possono esimere dall’essere umani. E’ importante esserne consapevoli. Sentirsi su un piedistallo non è mai servito a nessuno, nemmeno a chi si ritiene, a torto o a ragione, un artista.
Ma se Luo Fei non ha testimoniato quell’anno e mezzo di cammino, che cosa ci può mostrare? Che cosa vedremo? Quasi nulla. Non c’è quasi nulla da vedere, lo spazio che gli è stato affidato per rievocare la sua esperienza e provare a farla vivere un po’ anche a noi è vuoto. E’ vuoto per darci la possibilità di guardarci dentro, di capire se anche noi ci stiamo confrontando con il senso della nostra vita, se vogliamo essere persone vere o se facciamo quello che facciamo per farlo vedere agli altri, per crearci un’immagine sotto alla quale non c’è niente. Se intendiamo accettare la sfida che ogni nascita rappresenta, quella di essere venuti al mondo per compiere un cammino che solo noi possiamo percorrere, oppure se ci stiamo nascondendo e prendendo tempo pensando che quelle sono domande da lasciare al ‘dopo’.
Ma c’è anche molto. C’è la ricostruzione poetica, sofferta, di ciò che, in quell’anno e mezzo di vita ‘speciale’, gli ha lasciato un segno e lo ha cambiato profondamente, in senso spirituale o religioso che dir si voglia. C’è la sua voce che entra dentro di noi, che raggiunge le profondità più nascoste perché esige concentrazione e silenzio interiore. Cerchiamo di non farla risuonare invano, cerchiamo di capire le sue domande e farle nostre, perché sono domande sul senso dell’esistenza umana.
Non ho invitato Luo Fei a parlarci della sua esperienza perché lo ritengo (solo) un artista. Lo ho invitato perché lo considero una persona che si confronta onestamente con se stesso, con la sua vita e con quanto lo circonda. Un essere umano che dà il giusto valore al suo esistere. Per me è importante. Oggi più che mai.
Monica Dematté
Vigolo Vattaro, 10 marzo 2019
(giorno di profonda tristezza per la morte del caro cugino Raffaele)