Cultura e Società–uno Spazio d’arte in Cina

l’Adige – 31 Maggio 2015

uno Spazio d’arte in Cina
MO ART Dal 1986 la critica e curatrice di Vigolo Vattaro frequenta il Celeste
impero. E dall’anno scorso è direttrice artistica a Xinmi, nello Henan

RENZO M. GROSSELLI

È stata la prima critica d’arte europea a pubblicare un libro in Cina, in cinese, sull’arte contemporanea di quel Paese. E probabilmente è stata anche la prima occidentale che abbia fatto la curatrice per il Singapore Art Museum. Ora, in Cina è direttrice artistica di un grande spazio espositivo e residenziale che porta anche il suo nome, il Mo Art Space (dove Mo sta per Monica e lei di nome e cognome fa Monica Dematté ). Non si tratta di fatti slegati: questa cinquantenne trentina frequenta il più popoloso Paese del mondo dal 1986 «perché già allora sentivo che la Cina era il futuro».
Vive ai piedi della Vigolana e ha il corpo di chi ama il cammino. Agile. I genitori erano di Vigolo Vattaro ma lei crebbe a Centrale di Bedollo dove il padre faceva il medico. Fino ai 19, quando se ne andò a Bologna, a studiare al Dams (poi avrebbe ottenuto il dottorato a Genova, sull’arte cinese, «ma l’ho fatto più in Cina che in Liguria»).
Non una figlia di borghesi. Un nonno, Saverio, era fabbro e l’altro, Domenico, era contadino. «A Centrale sono cresciuta con la falce in mano, quella per il fieno». Ed ora cosa fai? «Sono critica e curatrice d’arte. Scrivo, cerco artisti che valgono, li seguo, curo tutto ciò che può valorizzarne l’opera: dalla mostra al catalogo, alla critica. E li seguo per anni, come una psicoterapeuta». Segui anche l’aspetto economico? «No, non il lato economico. Sono profondamente convinta che l’arte sia una necessità dello spirito. L’aspetto economico passa in seconda linea. Sono una persona che non ama trattare con i soldi, che non li valuta molto. Non è il mio pane».
Se la guardi, capisci che è così. Tutto è semplice in lei, come quel suo armeggiare con cocci e bricchi per prepararci il tè alla cinese. Monica Dematté è asciutta, pacata. Interiore. Solida. Una sicurezza stare con lei, senti che puoi fidarti, che sai dove stai andando. Ma se parli con lei, intendi che c’è il sogno a muoverla. Perché questa donna (che quando è in Trentino se ne sta avvinta alla sua Vigolana) è una ricercatrice della bellezza. «I sedicenti artisti che hanno l’intelligenza per creare quadri commerciali non mi interessano».
Sono altri gli artisti che Monica promuove, quelli che l’arte la praticano «per esprimere la propria personalità, che riescono ad esprimere soprattutto con l’arte e che senza di questa si sentirebbero incompleti. Io mi occupo di loro… che possano comunicare e, certo, anche vivere». E qui Monica ci dona un pezzo della sua, di anima: «In una società basata sull’omologazione e sul materialismo, sul non pensiero, essere dei diversi è difficile. Ed è lì che io mi impegno». Lei vive con poco: «Penso di essere la curatrice con meno esigenze materiali che ci sia. Ho una mia casa…».
Monica prima di frequentare il Dams disegnava e dipingeva. A Bologna lesse un libro di Ernst Gombrich , lo storico dell’arte. Fu affascinata dal fatto che, riferendosi alla pittura cinese tradizionale, parlava di arte che esprimeva l’invisibile, di spazi di superficie vuota su quei quadri dipinti su seta. «Fui illuminata e attratta totalmente da quella nozione di vuoto, che vive nella tradizione pittorica cinese». Cercò tutto ciò che era stato scritto al proposito in Occidente.
Poi trovò la Cina. Fu nel 1986: «23 anni, viaggiavo con uno zaino, sola. Era più facile di adesso entrare nel Paese, non ci andava nessuno. Fu semplice, mi rivolsi all’ambasciata di Roma» La giovane trentina gironzolò per il Celeste impero per cinque mesi, senza una guida scritta, dopo aver frequentato solo un breve corso di cinese: visitò soprattutto la periferia cinese, dallo Xinjiang allo Yunnan, al Tibet. «Cercavo il vuoto e trovai tutt’altro. Cercavo la Cina classica, che non esisteva già più. Trovai quella post maoista di Deng Xiaoping . Osservai, imparai, mi confrontai con questioni concrete di vita. Si spendeva poco e si mangiava male. Avevo pochi soldi, sceglievo le soluzioni più economiche… gli alberghi in cui non c’era nemmeno un bagno comune, dove dovevi uscire dallo stabile e fare una lunga fila».
Tornò, si laureò e fu a Canton, Accademia di belle arti. Da allora Monica è tornata in Cina ogni anno, esclusi il 1991 e il 1992. «Ricognizioni a tappeto, girando dei video sull’arte cinese contemporanea. Ma abitai anche a Taiwan, con una borsa di studio di quel governo». Non ci scandalizza più, da un pezzo, che molte grandi professionalità non allineate, in Trentino siano scarsamente conosciute e ancora meno valorizzate.
«Ho conosciuto e studiato moltissimi artisti cinesi. Pittori all’epoca, perché solo pochi iniziavano a proporre installazioni e scarsi erano gli scultori». In quel frattempo Monica tenne dei corsi all’Università di Venezia sull’arte contemporanea cinese, i primi nel mondo occidentale probabilmente.
Nel 1996 inviò un suo curriculum al Singapore Art Museum. La chiamarono e per un anno fece la curatrice «ma capii che non mi interessava lavorare nelle istituzioni. Tornai in Cina a rivedere i miei amici…». Nel 1999 fu incaricata dalla Biennale di Venezia di scrivere i saggi sul catalogo e assistere sul campo vari artisti cinesi (e proponeva mostre, dalla Sicilia alla Cina e, finalmente, nel 2002 prestò la propria opera anche al Mart, alle Albere allora, con Gabriella Belli ).
Oggi è direttore artistico di uno spazio d’arte a Xinmi, vicino alla città di Zhengzhou, capitale dello Henan. Glielo affidarono degli amici e l’inaugurazione avvenne l’11 maggio 2014. «Le grandezze? 700-800 metri quadri o forse più. I centri dell’arte contemporanea sono Shanghai e Pechino, quindi noi siamo periferici, da noi poca gente si occupa d’arte e di arte contemporanea ancora meno. Ma sarà il futuro, visto che – ne sono convinta – l’uomo non vive di solo pane».
Le opere esposte al Mo Art Space naturalmente possono essere vendute. «Ma la vendita non è il motivo primario dell’esposizione. Propongo gli artisti che conosco da molti anni, per la loro tensione profonda. Non sono mercenari e sono convinta che la possano comunicare». Oggi, aggiunge, il mercato dell’arte in Cina è impazzito, una realtà «pompata» da galleristi e collezionisti. L’arte contemporanea, come del resto da noi, è diventata il luogo in cui i ricchi del mondo mettono i loro soldi. «Cosa che non mi interessa. Certo, gli artisti devono vivere ma se propongono prezzi accessibili lo possono fare e allo stesso tempo anche la gente normale potrà fruire dell’arte. Anche se oggi la Cina è orientata in senso diverso: è materialista all’ennesima potenza».
Monica va ogni anno in Cina e ci rimane per vari mesi, organizzando due mostre l’anno. Lo stato «dell’arte» in Cina? «La maggior parte degli artisti, come ovunque, è cortigiana. Ma ci sono le eccezioni, che valgono e hanno qualcosa da dire. E molti artisti incominciano ad interessarsi dell’arte tradizionale. Dal ’49 agli anni ’90 l’arte in Cina era stata osteggiata. E poi si è occidentalizzata. Il rischio oggi è quello del nazionalismo. La Cina avverte, dopo molto tempo, di essere ritornata ad essere una potenza. E la cosa è pericolosa, impedisce alla gente di imparare».
Lei allo spazio Mo Art promuove anche artisti europei e italiani. Tempo fa era toccato alla straordinaria artista, ed essere umano eccezionale, Caterina Marinelli , la trentina che con le mani può plasmare nella creta, anche in pochi minuti, la figura di un cane che porta negli occhi l’intera anima, e nelle torsioni del corpo il dolore. O l’amore assoluto.
In questo periodo il Mo espone il pittore marchigiano Mirco Tarsi , assieme ad un fotografo cinese. «Si tratta di dialoghi mirati, i due ad esempio, usano il bianco e nero…». Il nuovo spazio culturale è sempre aperto e si pone anche come residenza di artisti.
Monica Dematté, che armeggia per noi col tè cinese, è appena rientrata dalla Cina e vi tornerà ad ottobre per una nuova mostra.
Si è fatta donna la ragazza che partì negli anni ’80 per la Cina. Ma è rimasta libera. Quando non pensa e non scrive d’arte, cammina, qui come in Cina pratica il trekking. Come è nato il Mo Art? «Da un grande, deciso atto di volontà di due cugini, Xing Peijun e Shen Weifeng e dall’impegnativo e coraggioso investimento di quest’ultimo… Una sera di maggio del 2014 approdai alla porta d’entrata, in ferro e fui introdotta nel grande spazio, nel giardino illuminato e pieno di alberi, nella casa e addirittura in quella che mi hanno presentato come la mia stanza. Grande emozione, una sorpresa rara».